In pieno autunno e poi d’inverno la
cucina era densa di umidi vapori, i vetri si appannavano e noi
bambini vi scrivevamo i nostri nomi. La mamma era indaffarata ai
tegami borbottanti di minestroni, stracotti e fagioli all’uccelletto.
Tanti profumi da portare in tavola, ma il più dolce e avvolgente era
quello del castagnaccio , che invadeva il corridoio fino
all’anticamera. All’epoca questo dolce rustico, se di dolce si
può parlare, era poco conosciuto in Lombardia e a Milano lo si
poteva trovare in qualche panetteria preparato in maniera impropria,
era cioè di spessore alto e massiccio, una sorta di mattonella ben
lungi dall’assomigliare al basso, unto, fragrante castagnaccio di
Lucca o Firenze.
Quando sentivo il profumo di castagna
lievemente corretto dall’aroma dei pinoli e dell’olio d’oliva
mi riempivo di contentezza, i polmoni si allargavano a quell’aria
calda di forno trascinante un che di natura e di bosco: gli
ingredienti del castagnaccio erano infatti tutti frutti della terra,
semplici ed essenziali come l’alito di vita.
La farina di castagna aveva una
consistenza impalpabile dovuta al lungo particolare trattamento a cui
erano, per tradizione, sottoposte le castagne in Toscana. Un
procedimento, come appresi più tardi, molto diverso da quello
impiegato in Piemonte e in altre regioni d’Italia. Sui monti della
Toscana le castagne erano essiccate in locali di pietra su un
graticcio, sotto il quale, per circa quaranta giorni, ardeva un
fuocherello alimentato da legna di castagno. Poi tolti gusci e
pellicine venivano macinate ottenendo una farina impalpabile come la
cipria e dolce perchè priva dell’epiderma che rende amarognole
tutte le altre farine di castagne.
Dunque il nostro castagnaccio era
preparato con farina rigorosamente toscana secondo l’antica
semplicissima ricetta: farina di castagna, acqua, olio d’oliva e
pinoli. Sciolti i grumi, il liquido non doveva essere troppo denso e,
versato in una teglia, doveva arrivare a metà bordo per ottenere un
castagnaccio né troppo alto né troppo basso. In ogni caso era
preferibile basso perché più saporito. La mia fetta unta, morbida,
con i pinoli sparsi era per me bambina la memoria di immagini forse
non del tutto chiare e consapevoli delle mie origini, di quelle dei
miei genitori e giù giù nel tempo dei miei antenati. Era una sorta
di correlativo oggettivo eliottiano che evocava terra, selve, rocce,
e soprattutto una lingua con la “c” aspirata, con quella
consonante etrusca arrivata fino a me tramite mia madre e mio padre.
Non diceva infatti la mamma scherzando - ma non tanto - che noi
discendevamo dagli Etruschi?
Laboratorio alla Biblioteca Venezia, 2012
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